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Renzo Montagnoli (24/09/2009) - Voto: 5/5
Sergio Sozi, che ha innati il senso e il sentimento dell’italianità, non poteva rimanere indifferente alla situazione di un’Italia i cui abitanti hanno abiurato inconsciamente le loro origini, gettandosi, nel servilismo più totale e masochista, fra le braccia di altre civiltà, in primis quella americana. Ha così ideato e scritto un romanzo fantastico, in una versione distopica, immaginando il nostro paese nel non così lontano futuro 2050. La visione catastrofica, di una nazione che non è più nazione, viene abilmente stemperata da un atteggiamento satirico, che muove anche al riso per le nostre disgrazie, e proprio per questo resta l’amaro in bocca. La scoperta di un diario del vecchio poeta Cesare Menicucci, ormai scomparso, offre all’io narrante, tale Lukin Philipucci, i resti archeologici di quella che fu una grande civiltà, estintasi nel 2003 quando venne chiusa l’ultima biblioteca italiana. Dopo quella data si entra in una nebbia letteraria, in cui predominano strani linguaggi, tutto fuorché l’italiano, e cessa la memoria, non tramandata alle nuove generazioni, con una perdita così dell’identità nazionale, ma anche della personalità individuale. E’ forse superfluo che dica che la visione dell’Italia, effettuata a ritroso, sulla scorta di questo diario, in cui i versi di Menicucci scandiscono gli eventi, come fossero le portate di un vero e proprio menu, è quella, pari pari, che abbiamo sotto i nostri occhi, con una popolazione avulsa dalla realtà e che vive di apparenza, in cui ritmi e comportamenti sono scanditi da mode sì imposte, ma a cui ben volentieri ci si adegua, insomma una società di quasi decerebrati. Ma come è potuto accadere uno scempio del genere? Leggete questo “divertente” romanzo e lo saprete, con un’avvertenza, però: è vero che si tratta di fantasia, ma è purtroppo ben ancorata alla realtà. Ah, un’ultima annotazione: state attenti alla lingua in uso nel 2050, perché è una vera chicca.